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Archivio 2010

Made in China

31 dicembre 2010 – Sara vive in un villaggio del Kenya. Per arrivare alla città più vicina (Mogotio) deve fare due chilometri a piedi e tre ore di mototaxi. A Mogotio ci va soprattutto per ricaricare il suo cellulare, che usa per tenere i contatti con la famiglia e per sapere i prezzi delle galline sul mercato. Così riesce a mandare avanti il suo piccolo allevamento. A Mogotio – lo racconta il New York Times – lascia il cellulare nel negozio in cui lo ricaricano per 30 centesimi. Però deve aspettare il suo turno perché i cellulari da ricaricare sono tanti e quindi deve tornare dopo un paio di giorni. Costo del viaggio: 20 dollari. Adesso la sua vita è cambiata: per 80 dollari la sua famiglia ha comprato un pannello solare.

Serve a ricaricare il cellulare e a tenere accese quattro lampadine a basso consumo. Anche i figli hanno voti migliori a scuola perché possono studiare anche dopo il tramonto. Se guardate il mondo dal satellite di notte vedete che tutta la luce è concentrata nell’emisfero nord; l’Africa, in particolare, è il posto più buio del mondo. La rete elettrica infatti, a parte le città più grandi, è inesistente. Un pannello solare può così cambiare la vita di un’intera famiglia.
Il pannello solare è Made in China, fabbricato in Cina, ed è per questo che costa solo 80 dollari. Senza i cinesi la vita di Sara non sarebbe cambiata. Venticinque anni fa la Cina non riusciva a produrre neppure un paio di scarpe per ogni cinese. E certo non poteva importarle. La conseguenza era che ogni cinese poteva cambiarsi le scarpe solo una volta ogni due anni circa e quindi aveva una cura meticolosa di quelle che aveva ai piedi. Scarpe di pelle o di stoffa (ma pelle “povera”, spesso pelle di maiale conciata alla meglio). La plastica, la gomma, erano un lusso, come da noi nei primi anni Cinquanta.
Oggi la Cina produce praticamente tutte le scarpe (per quanto puzzolenti di petrolio siano) che indossano tutti gli abitanti del pianeta. Tutte quelle che indossano gli africani sicuramente. Anche se gli africani non amano particolarmente i cinesi, perché la Cina l’Africa la sta se non colonizzando certamente comprando. Sta comprando le sue ricchezze naturali, le sue materie prime. Gli occidentali arrivavano e prendevano; i cinesi in cambio costruiscono infrastrutture, forniscono merci e distribuiscono un po’ di ricchezza (più di 9 miliardi di dollari di investimenti diretti nel 2009, cancellazione del debito per 35 paesi per un valore di 3 miliardi di dollari). Meglio dei colonialisti, anche se al fondo l’Africa è sempre terra di conquista.
E dunque questo miracolo cinese è un bene o un male? Sicuramente un bene per le industrie occidentali (italiane) che hanno delocalizzato selvaggiamente e fatto tanti soldi negli ultimi anni. Sicuramente un bene per i consumatori dei paesi poveri che oggi si possono permettere tante cose, dalle scarpe alla lavatrici, dai vestiti ai cellulari. Un male per i consumatori dei paesi ricchi che hanno visto un crollo dello standard qualitativo dei prodotti di consumo (non sono solo le scarpe che puzzano ma tutto quello che acquistiamo oggi è meno solido). Un male sicuramente per gli operai europei e americani che con la delocalizzazione hanno perso il proprio lavoro (ma qui la “colpa” non è certo dei cinesi).
Ma a leggere l’ultimo rapporto, di qualche giorno fa, dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) il miracolo cinese mischiato alla crisi finanziaria occidentale ha ridistribuito la ricchezza verso i lavoratori dei paesi “in via di sviluppo”. Ha migliorato la vita soprattutto dei più “disgraziati”, degli “schiavi” moderni: quelli che in Sudafrica sono discriminati su base razziale, le operaie asiatiche discriminate perché donne. Per loro, che hanno guadagnato sempre metà o due terzi del pur basso salario locale, le cose vanno meglio, a volte molto meglio.
Allo stesso tempo in molti paesi né ricchi né poveri (Europa dell’est, america meridionale) molti lavoratori sono passati da livelli salariali medi a livelli bassi.
Le statistiche aiutano a capire fino a un certo punto. Quello che dice il rapporto Ilo (ma lo sapevamo già) è che dove la crisi non è gestita, governata, va peggio per tutti, sono sempre di più quelli che vengono lasciati indietro. Oggi è facile per chi è molto indietro fare un passetto avanti, altrettanto facile per chi è avanti fermarsi, tornare indietro.
Il Quotidiano del Popolo, voce del governo cinese, interpella i suoi migliori economisti che spiegano come il motore economico del mondo ormai si è spostato e indietro non si torna. I paesi occidentali, sentenziano i cinesi, non riusciranno mai più a crescere come in passato. Ma difficilmente gli stessi economisti avrebbero previsto vent’anni fa che la Cina sarebbe diventata il motore economico mondiale. Oggi davvero una sola cosa si può dire con certezza: e cioè affermare l’incertezza.
Cosa ne sarà di noi (non in quanto occidentali ma in quanto consumatori/lavoratori globalizzati), quanta parte di perdita e quanta di opportunità distribuirà la crisi non ce lo può dire nessuno, nemmeno i cinesi.